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°°[Cultura] Sylvia Plath: The Rabbit Catcher e la Sofferenza Creaturale°°
Sylvia Plath è stata fra le poetesse inglesi più importanti e promettenti del periodo Modernista.
La sua tragica fine ha sottratto al mondo della letteratura e della poesia chissà quali altri componimenti carichi di riflessioni e sentimenti che avremmo potuto leggere.
Di lei si parla relativamente poco. Ho avuto la possibilità di conoscere la sua storia e la sua arte letteraria solo attraverso il Corso di Letteratura Inglese Contemporanea seguito all’Università di Pisa, tenuto dal professor Fausto Ciompi.

Sylvia nacque in America, a Boston, nel 1932.
Perse il padre quando era molto giovane, ed il rapporto con lui avuto mentre era in vita influenzò molto l’idea che aveva della mascolinità. Il legame con la madre Aurelia, che lei definiva ‘Medusa’, fu molto problematico a causa del suo incarnare ideali patriarcali. Personalità estremamente delicata e sensibile, tentò più volte il suicidio, prima di riuscire nell’intento di porre fine alla sua vita.
Sylvia era appassionata di letteratura, era sensibile, era promettente. Fu durante i suoi studi a Cambridge, in Inghilterra, che incontrò per la prima volta Ted Hughes, futuro poeta laureato inglese e ben presto suo marito.

Ted e Sylvia si sposarono, e dalla loro unione nacquero Frieda e Nicholas (quest’ultimo, morì suicida). Nel 1961 il matrimonio, già instabile per le differenze caratteriali dei due, subì un duro colpo con la conoscenza di Assya Wevill. Assya, particolarmente femminile, aveva preso in affitto parte della loro casa assieme al marito. Non passò molto tempo che diventò una delle molteplici amanti di Ted.
Un giorno Sylvia, non sopportando più l’idea di condurre un’esistenza simile, mise al sicuro i bambini nella loro camera, sigillò la cucina e si suicidò inalando i gas del forno. Era l’11 febbraio 1963, e Sylvia aveva solo 30 anni.
Assya, che nel frattempo aveva avuto una bambina presumibilmente da Ted, decise di porre fine alla sua esistenza attuando lo stesso suicidio di Sylvia, con la differenza che non mise al sicuro la piccola Sura, ma decise di portarla via con sé.

Sylvia è stata una poetessa espressionista. In sé aveva grandi energie e grandi passioni. Si ispirò molto a T.S. Eliot, e dopo averlo conosciuto fu Ted Hughes stesso la sua fonte di ispirazione.
Nella sua poetica troviamo molte descrizioni, così accurate che sembra che il suo vissuto sia dipinto con la penna. Attraverso i versi è riuscita a mettere a nudo la sua interiorità, tanto che la sua poesia è definita dai critici confessional poetry. Una poesia di emozioni estreme, di passioni, di tristezza, di sincerità e di autenticità.
Il motivo per cui Sylvia Plath è presente sul mio blog nell’area dedicata alla cultura risiede nella sua poesia The Rabbit Catcher, che verrà analizzata in chiave antispecista in questo articolo.
Come già anticipa il titolo dell’opera, il componimento parla della caccia di frodo ai conigli, una pratica illegale ai tempi in Inghilterra poiché violava le leggi del Regno. Ciò che è interessante è il sentimento di Sylvia nei confronti di questa pratica, e la sua vicinanza alle vittime intrappolate.
It was a place of force—
The wind gagging my mouth with my own blown hair,
Tearing off my voice, and the sea
Blinding me with its lights, the lives of the dead
Unreeling in it, spreading like oil.
I tasted the malignity of the gorse,
Its black spikes,
The extreme unction of its yellow candle-flowers.
They had an efficiency, a great beauty,
And were extravagant, like torture.
There was only one place to get to.
Simmering, perfumed,
The paths narrowed into the hollow.
And the snares almost effaced themselves—
Zeros, shutting on nothing,
Set close, like birth pangs.
The absence of shrieks
Made a hole in the hot day, a vacancy.
The glassy light was a clear wall,
The thickets quiet.
I felt a still busyness, an intent.
I felt hands round a tea mug, dull, blunt,
Ringing the white china.
How they awaited him, those little deaths!
They waited like sweethearts. They excited him.
And we, too, had a relationship—
Tight wires between us,
Pegs too deep to uproot, and a mind like a ring
Sliding shut on some quick thing,
The constriction killing me also.
Era un luogo di forza—
Il vento, che li smuoveva, mi imbavagliava coi miei stessi capelli
Strappandomi la voce, e il mare
Mi accecava con le sue luci, le vite dei morti
Scorrevano in esso, diffondendosi come petrolio.
Ho assaporato la perfidia della ginestra,
Le sue spine nere,
L’estrema unzione dei suoi fiori giallo cera.
Avevano efficacia, una grande bellezza,
Ed erano eccessivi, come una tortura.
C’era solo un luogo dove poter passare.
Ribollendo, profumati,
I sentieri si restringevano verso la cavità del terreno.
E le trappole quasi si nascondevano—
Zeri, chiudendosi di scatto sul niente.
Messi vicino, come doglie.
L’assenza di grida
Creava un vuoto in quella giornata afosa, un’assenza.
La luce vitrea era un muro chiaro,
I cespugli erano silenti.
Sentivo un’immobile frenesia, una volontà.
Sentivo mani cingere una tazza da tè, smussata, opaca,
Che facevano risuonare la porcellana bianca.
Come lo aspettavano, quelle piccole vittime!
Lo aspettavano come innamorate. Lo eccitavano.
E noi, pure, avevamo una relazione—
Lacci stretti fra di noi,
Ganci troppo profondi per essere estirpati, e una mente come un anello
Chiuso lentamente su una cosa veloce,
La presa stava uccidendo anche me.
Traduzione: Carmen Luciano

La poesia nasce da un ritaglio di tempo libero passato in famiglia. Sylvia e Ted sono con i figli nel verde dei campi inglesi poco distanti dalla loro casa nel Devon, in prossimità del mare. Una natura che non sente benevola.
Ad un certo punto, mentre camminano, Sylvia nota delle trappole per catturare i conigli, disposte dai contadini del luogo di nascosto dalle autorità.
Sylvia si immedesima con estrema naturalezza nelle vittime di quelle trappole. Le toglie dal suolo, cerca di romperle, le getta via davanti agli occhi increduli di Ted, che invece riteneva quegli strumenti fonti di sostentamento per chi li aveva collocati nelle campagne. L’uomo scriverà diversi anni dopo una poesia dallo stesso titolo per dare la sua versione del fatto accaduto.
Sylvia vede nella sofferenza del coniglio, che nel suo leggiadro e silenzioso movimento finisce intrappolato fra i denti metallici del marchingegno perdendo così la vita di stenti, anche la sua sofferenza. Una sofferenza creaturale che la fa sentire vittima assieme alle altre vittime di altre specie. Sente dentro di sé la sofferenza di quell’animaletto che niente di male aveva fatto al mondo per meritare una fine simile. Sensibile e delicato l’animale, sensibile e delicata lei; tintinnano le catene dei cacciatori di frodo, così come tintinna la fede nuziale su una tazza di thè.
Sylvia paragona il suo matrimonio soffocante alla trappola che ha tolto la vita alla creatura.
“The constriction killing me also“: così termina la poesia, che non lascia spazio ad altre interpretazioni. Quel matrimonio sente che la sta uccidendo, destinandola allo stesso destino del coniglio trovato nella trappola.
Probabilmente Sylvia non aveva abbracciato né vegetarismo né veganismo, anche se devo documentarmi maggiormente in merito. Leggendo la sua opera The Bell Jar infatti non mancano riferimenti al consumo di carne da parte dei personaggi. Ma da questa poesia emerge chiaramente il suo sentimento di vicinanza verso creature fatte nascere per soffrire, subire e morire, e tutta la sua empatia nei confronti della loro sofferenza, motivo per cui non potevo non parlarne sul mio blog dedicandole questo articolo.
Conoscevate già questa poetessa?
Avevate già letto questa poesia?
Quale sensazione vi suscita la sua lettura?
Fatemelo sapere nei commenti.
Carmen Luciano
Dott.ssa in Lingue e Letterature Straniere
Lingue, Letterature e Filologie Euromericane











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