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[Cultura] Testi Rari su Percy Bysshe Shelley

Care lettrici e cari lettori,

vi informo con molto piacere che lunedì 7 ottobre ho ricevuto, con immensa gioia, alcuni testi rari sul poeta Percy Bysshe Shelley acquistati in Inghilterra alla fine del mese scorso da due antiquari.

Il primo acquisto è stato la biografia scritta sul poeta dall’amico universitario Thomas Jefferson Hogg (1792-1862). Si tratta di “The Life of Percy Bysshe Shelley”, che doveva contare quattro volumi, ma che purtroppo rimase composta solo dai primi due a causa delle opposizioni del padre del poeta, Timothy Shelley. È a quest’ultimo, purtroppo, che dobbiamo la mancata stesura della biografia che intendeva scrivere e pubblicare la moglie Mary Wollstonecraft Godwin (venne minacciata col taglio dei fondi per il mantenimento del piccolo Percy Florence Shelley, nato nel 1819 a Firenze, se si fosse permessa di scrivere qualcosa sul marito) e se mancano all’appello gli ultimi due volumi di questa incredibile collezione biografica ricca di aneddoti e fatti accaduti nella vita del poeta.
Hogg, classe 1792 come Shelley, conobbe il poeta durante gli studi all’Università di Oxford, vivendo a stretto contatto con lui e avendo modo di conoscere bene il suo carattere, le sue abitudini e i suoi pensieri più intimi. Il 26 marzo 1811 vennero espulsi entrambi dall’ateneo per aver fatto circolare uno scritto su “The Necessity of Atheism“. Nonostante Timothy cercò di interferire nella loro amicizia, invitando via lettera anche il padre di Hogg a vietare al figlio di frequentare il proprio, Thomas e Percy non si persero di vista, bensì continuarono a frequentarsi e a scriversi.

Le copie di cui sono entrata in possesso sono finemente rilegate in lino, in edizione originale del 1858. A parte le copertine, che per il peso dei volumi si sono staccate, il loro interno è perfetto. Entrambi i volumi sono stati proprietà di una biblioteca per svariati anni (si può notare la catalogazione “SHE” sulla costa del volume II).
Quella di Hogg è una delle biografie più belle che sono state scritte su Shelley nel 1800: di pagina in pagina, essa permette di vivere da vicino la quotidianità del poeta, accompagnando lettrici e lettori alla scoperta di fatti e avvenimenti salienti, preziosi per tutte le persone che non hanno avuto la fortuna di conoscere Shelley di persona.

“The Life of Percy Bysshe Shelley” è stata una biografia fondamentale per me per la stesura della mia tesi di laurea magistrale “Ashes and sparks, my words among mankind!: La Matrice Antispecista nel Pensiero e negli Scritti di Percy Bysshe Shelley” (Relatrice: Ch.ma Prof.ssa Laura Giovannelli, Università di Pisa), evolutasi in libro edito da Carmignani Editrice: “Percy Bysshe Shelley Pensatore Antispecista” (acquistabile QUI).

Durante il mio lavoro di ricerca bibliografica ho trovato in rete, gentilmente digitalizzata dall’organizzazione no profit Internet Archive, la biografia sfogliabile in versione PDF. Quando l’ho vista in vendita online, non ho potuto trattenermi dall’acquistarla: non sono a conoscenza di quante copie siano disponibili in tutto il mondo, ma con ogni probabilità questi due volumi sono fra i pochissimi presenti in Italia.

Come ho scritto nell’articolo pubblicato lo scorso 24 settembre, ho avviato il progetto “Cultura Antispecista” col fine di collezionare opere che parlino degli albori dell’Antispecismo nei secoli, cercando di ricucire il filo che lega l’empatia del passato con la nostra contemporanea. “The Life of Percy Bysshe Shelley”, con tutte sue le pagine dedicate all’alimentazione vegetale del poeta e che raccontano uno spaccato di società del 1800 interessato al non consumo di animali, non poteva mancare all’appello.

[Per chi volesse consultare online la biografia, è disponibile qui: Volume IVolume II]


Il secondo acquisto, mi permetto di dirlo, è veramente una gemma preziosa per la quale mi emoziona il solo pensiero di esserne entrata in possesso.
Si tratta di una raccolta di testi poetici di Shelley, pubblicata da George Routledge and Sons a Londra. Quando l’ho acquistata non immaginavo di quale meraviglia sarebbe giunta fra le mie mani.
L’antiquario che l’aveva messa in vendita l’aveva indicata come edizione del 1900 circa, ma è probabile che il reale anno di pubblicazione sia stato attorno al 1875.
Esteticamente incantevole (copertina rigida in rilievo con decori dorati, come dorati sono i lati delle pagine), questa raccolta contiene tutte le poesie di Shelley suddivise per anno di pubblicazione, inclusi frammenti, impreziosite da bellissime illustrazioni. Sfogliandola delicatamente (è in perfette condizioni, ma la sua consultazione rende fragili alcune pagine) ho provato immensa gioia nel vedere con quanta cura è stata realizzata quest’opera.
La scoperta che ho fatto una volta letta la parte introduttiva è stata sensazionale: questo testo è stato curato nel suo “Preliminary Memoir” e nelle illustrazioni da William Bell Scott.
William Bell Scott (1811-1890), che non avevo mai avuto modo di conoscere prima, è stato un pittore e poeta scozzese appartenente alla corrente dei Preraffaelliti (che ho letteralmente adorato grazie a un corso della professoressa Biancamaria Rizzardi durante il mio percorso Triennale all’Università di Pisa). Dalle parole di Scott, riportate nel suddetto Memoir, si comprende quanta stima avesse di Shelley e quanto lo apprezzasse non solo come poeta, ma anche come essere umano. Scott inserisce infatti una poesia da lui scritta in onore di Shelley, che è possibile trovare dalla pagina xviii a xxi.
A differenza di “The Life of Percy Bysshe Shelley”, quest’opera appare non essere digitalizzata e messa a disposizione per la consultazione online. È per questo motivo che ho provveduto a crearne un file PDF, scaricabile direttamente dal mio blog, almeno nel suo “Preliminary Memoir”.

“Shelley Illustrated” contiene in versione integrale “Queen Mab“, opera in cui Shelley vaticina un mondo dove nessuna creatura viene più mangiata, sebbene sia sprovvista delle preziose note. Inoltre, è inserito anche il capolavoro “The Sensitive Plant“, in cui il poeta attraverso i versi diffonde empatia verso ogni forma di vita, inclusi gli insetti.

Chi desiderasse scaricare la parte introduttiva di quest’opera, può farlo cliccando sul bottone sottostante:



Al prossimo articolo!

Carmen



Se desideri sostenere il progetto “Cultura Antispecista”, clicca QUI.

°°[Cultura] Sylvia Plath: The Rabbit Catcher e la Sofferenza Creaturale°°

Sylvia Plath è stata fra le poetesse inglesi più importanti e promettenti del periodo Modernista.
La sua tragica fine ha sottratto al mondo della letteratura e della poesia chissà quali altri componimenti carichi di riflessioni e sentimenti che avremmo potuto leggere.

Di lei si parla relativamente poco. Ho avuto la possibilità di conoscere la sua storia e la sua arte letteraria solo attraverso il Corso di Letteratura Inglese Contemporanea seguito all’Università di Pisa, tenuto dal professor Fausto Ciompi.


Sylvia nacque in America, a Boston, nel 1932.
Perse il padre quando era molto giovane, ed il rapporto con lui avuto mentre era in vita influenzò molto l’idea che aveva della mascolinità. Il legame con la madre Aurelia, che lei definiva ‘Medusa’, fu molto problematico a causa del suo incarnare ideali patriarcali. Personalità estremamente delicata e sensibile, tentò più volte il suicidio, prima di riuscire nell’intento di porre fine alla sua vita.

Sylvia era appassionata di letteratura, era sensibile, era promettente. Fu durante i suoi studi a Cambridge, in Inghilterra, che incontrò per la prima volta Ted Hughes, futuro poeta laureato inglese e ben presto suo marito.

Ted e Sylvia si sposarono, e dalla loro unione nacquero Frieda e Nicholas (quest’ultimo, morì suicida). Nel 1961 il matrimonio, già instabile per le differenze caratteriali dei due, subì un duro colpo con la conoscenza di Assya Wevill. Assya, particolarmente femminile, aveva preso in affitto parte della loro casa assieme al marito. Non passò molto tempo che diventò una delle molteplici amanti di Ted.
Un giorno Sylvia, non sopportando più l’idea di condurre un’esistenza simile, mise al sicuro i bambini nella loro camera, sigillò la cucina e si suicidò inalando i gas del forno. Era l’11 febbraio 1963, e Sylvia aveva solo 30 anni.

Assya, che nel frattempo aveva avuto una bambina presumibilmente da Ted, decise di porre fine alla sua esistenza attuando lo stesso suicidio di Sylvia, con la differenza che non mise al sicuro la piccola Sura, ma decise di portarla via con sé.


Sylvia è stata una poetessa espressionista. In sé aveva grandi energie e grandi passioni. Si ispirò molto a T.S. Eliot, e dopo averlo conosciuto fu Ted Hughes stesso la sua fonte di ispirazione.
Nella sua poetica troviamo molte descrizioni, così accurate che sembra che il suo vissuto sia dipinto con la penna. Attraverso i versi è riuscita a mettere a nudo la sua interiorità, tanto che la sua poesia è definita dai critici confessional poetry. Una poesia di emozioni estreme, di passioni, di tristezza, di sincerità e di autenticità.

Il motivo per cui Sylvia Plath è presente sul mio blog nell’area dedicata alla cultura risiede nella sua poesia The Rabbit Catcher, che verrà analizzata in chiave antispecista in questo articolo.
Come già anticipa il titolo dell’opera, il componimento parla della caccia di frodo ai conigli, una pratica illegale ai tempi in Inghilterra poiché violava le leggi del Regno. Ciò che è interessante è il sentimento di Sylvia nei confronti di questa pratica, e la sua vicinanza alle vittime intrappolate.


It was a place of force—
The wind gagging my mouth with my own blown hair,
Tearing off my voice, and the sea
Blinding me with its lights, the lives of the dead
Unreeling in it, spreading like oil.

I tasted the malignity of the gorse,
Its black spikes,
The extreme unction of its yellow candle-flowers.
They had an efficiency, a great beauty,
And were extravagant, like torture.

There was only one place to get to.
Simmering, perfumed,
The paths narrowed into the hollow.
And the snares almost effaced themselves—
Zeros, shutting on nothing,

Set close, like birth pangs.
The absence of shrieks
Made a hole in the hot day, a vacancy.
The glassy light was a clear wall,
The thickets quiet.

I felt a still busyness, an intent.
I felt hands round a tea mug, dull, blunt,
Ringing the white china.
How they awaited him, those little deaths!
They waited like sweethearts. They excited him.

And we, too, had a relationship—
Tight wires between us,
Pegs too deep to uproot, and a mind like a ring
Sliding shut on some quick thing,
The constriction killing me also.



Era un luogo di forza—
Il vento, che li smuoveva, mi imbavagliava coi miei stessi capelli
Strappandomi la voce, e il mare
Mi accecava con le sue luci, le vite dei morti
Scorrevano in esso, diffondendosi come petrolio.

Ho assaporato la perfidia della ginestra,
Le sue spine nere,
L’estrema unzione dei suoi fiori giallo cera.
Avevano efficacia, una grande bellezza,
Ed erano eccessivi, come una tortura.

C’era solo un luogo dove poter passare.
Ribollendo, profumati,
I sentieri si restringevano verso la cavità del terreno.
E le trappole quasi si nascondevano—
Zeri, chiudendosi di scatto sul niente.

Messi vicino, come doglie.
L’assenza di grida
Creava un vuoto in quella giornata afosa, un’assenza.
La luce vitrea era un muro chiaro,
I cespugli erano silenti.

Sentivo un’immobile frenesia, una volontà.
Sentivo mani cingere una tazza da tè, smussata, opaca,
Che facevano risuonare la porcellana bianca.
Come lo aspettavano, quelle piccole vittime!
Lo aspettavano come innamorate. Lo eccitavano.

E noi, pure, avevamo una relazione—
Lacci stretti fra di noi,
Ganci troppo profondi per essere estirpati, e una mente come un anello
Chiuso lentamente su una cosa veloce,
La presa stava uccidendo anche me.

Traduzione: Carmen Luciano


La poesia nasce da un ritaglio di tempo libero passato in famiglia. Sylvia e Ted sono con i figli nel verde dei campi inglesi poco distanti dalla loro casa nel Devon, in prossimità del mare. Una natura che non sente benevola.
Ad un certo punto, mentre camminano, Sylvia nota delle trappole per catturare i conigli, disposte dai contadini del luogo di nascosto dalle autorità.
Sylvia si immedesima con estrema naturalezza nelle vittime di quelle trappole. Le toglie dal suolo, cerca di romperle, le getta via davanti agli occhi increduli di Ted, che invece riteneva quegli strumenti fonti di sostentamento per chi li aveva collocati nelle campagne. L’uomo scriverà diversi anni dopo una poesia dallo stesso titolo per dare la sua versione del fatto accaduto.

Sylvia vede nella sofferenza del coniglio, che nel suo leggiadro e silenzioso movimento finisce intrappolato fra i denti metallici del marchingegno perdendo così la vita di stenti, anche la sua sofferenza. Una sofferenza creaturale che la fa sentire vittima assieme alle altre vittime di altre specie. Sente dentro di sé la sofferenza di quell’animaletto che niente di male aveva fatto al mondo per meritare una fine simile. Sensibile e delicato l’animale, sensibile e delicata lei; tintinnano le catene dei cacciatori di frodo, così come tintinna la fede nuziale su una tazza di thè.
Sylvia paragona il suo matrimonio soffocante alla trappola che ha tolto la vita alla creatura.
The constriction killing me also“: così termina la poesia, che non lascia spazio ad altre interpretazioni. Quel matrimonio sente che la sta uccidendo, destinandola allo stesso destino del coniglio trovato nella trappola.

Probabilmente Sylvia non aveva abbracciato né vegetarismo né veganismo, anche se devo documentarmi maggiormente in merito. Leggendo la sua opera The Bell Jar infatti non mancano riferimenti al consumo di carne da parte dei personaggi. Ma da questa poesia emerge chiaramente il suo sentimento di vicinanza verso creature fatte nascere per soffrire, subire e morire, e tutta la sua empatia nei confronti della loro sofferenza, motivo per cui non potevo non parlarne sul mio blog dedicandole questo articolo.

Conoscevate già questa poetessa?
Avevate già letto questa poesia?
Quale sensazione vi suscita la sua lettura?
Fatemelo sapere nei commenti.




Carmen Luciano
Dott.ssa in Lingue e Letterature Straniere
Lingue, Letterature e Filologie Euromericane

°° Il Messaggio Specista Occulto nel Termine “Frutti di Mare” °°

Gli animali, abitanti del pianeta che ospita anche noi, sono da sempre visti dalla specie umana come esistenze messe al nostro servizio dalla natura. Un’idea infondata, ma che come verità assoluta sta alla base di ogni tipo di sfruttamento. Senza vergogna alcuna le persone sono riuscite a piegare sotto il peso della propria volontà qualsiasi forma di vita, arbitrandone ogni aspetto per egoismo, capriccio, lucro economico.
Delle numerose specie intese come mera materia organica da prelevare dall’ambiente, uccidere, commerciare e dare in pasto ai propri simili troviamo accanto a quelle terrestri anche quelle acquatiche.

Spesso è possibile imbattersi nella dicitura “frutti di mare“, sia su siti internet di ricette che nei menù dei ristoranti.
Il termine viene largamente utilizzato dai parlanti per indicare genericamente un insieme di specie animali marine utilizzate come ingrediente in cucina: molluschi e crostacei, in prevalenza.
In questo articolo desidero dissezionare tale espressione popolare mostrando il vero significato che a mio avviso si cela in essa.



Prima di iniziare con la mia analisi, è doveroso ricordare che con la parola frutto si intende una “parte della pianta, costituita dall’ovario fecondato, che contiene i semi”. I frutti, parlando in modo più concreto, sono quegli elementi che le piante creano affinché i propri semi giungano più lontano possibile dalla pianta madre. Essendo creature intelligenti (l’intelligenza è prerogativa di ogni forma di vita, anche quelle vegetali lo sono), le piante formano i propri frutti rendendoli accattivanti e interessanti nella forma e nell’aspetto, e sia nel colore che nel sapore. Queste caratteristiche fanno sì che gli animali – fra i quali l’essere umano – mangino direttamente dalla pianta (come accade agli uccelli, per esempio) o stacchino da essa i frutti. I semi contenuti nei frutti, una volta ingeriti, rimangono integri e finiscono nelle feci. E’ grazie alla loro presenza negli escrementi animali che ciascun seme può dare vita a una nuova pianta.
Questo processo riproduttivo viene definito Zoocoria, ed è descritto in modo più approfondito in questo pdf.

I frutti quindi sono alimenti messi lì a disposizione dalle piante in modo volontario. L’animale trae nutrimento dagli elementi organici dai quali è costituito ogni singolo frutto, mentre la pianta trae vantaggio per la sua riproduzione con i semi che arrivano lontano. Un equilibrio perfetto, risultato di un ecosistema che sembra esser disegnato da una mente geniale.

Arriviamo quindi al dunque.

Perché è scorretto definire gli animali marini “frutti di mare”?
Chiamare “frutti di mare” molluschi e crostacei significa mettere in atto un processo psicologico mentale volto a far intendere come inanimati esseri viventi che invece sono animati e dotati di volontà. Il distacco empatico dalle altre specie è una costruzione sociale e culturale che si protrae da secoli. L’iniziazione parte dalle menti più giovani e la volontà di creare distacco emotivo prende vita attraverso svariati mezzi, anche quello linguistico. Non a caso si tende ad attribuire termini che si distaccano dalla realtà oggettiva. Il menù di un ristorante apparirebbe ai nostri occhi decisamente diverso se leggessimo tra i secondi piatti una portata a base di “abitanti del mare”. Il mare viene così confuso come un luogo dove poter prelevare “alimenti” che sarebbero messi a disposizione per l’umanità dalla natura. A differenza delle piante però, gli animali non sono il frutto del mare. Dei mari sono appunto abitanti, sono ospiti, sono “popolo”. Quando le persone con la violenza e l’inganno sottraggono questi animali al loro habitat non prendono parte a una catena di causa-effetto positiva volta al generare nuova vita. Si genera solo morte. Le creature ingerite, digerite e successivamente defecate, non attivano nessuna nuova forma di vita al contatto col suolo.

Il mare non è un albero o una pianta. Il mare non plasma alimenti per diffondere i propri semi e riprodursi.
Gli animali non sono frutti, ma sono esseri senzienti, intelligenti, che meritano di esistere e di essere lasciati liberi di vivere la propria vita. Non importa se la scienza abbia decretato o meno la loro capacità di provare dolore e sofferenza. La maggior parte di loro viene uccisa bollita viva in acqua. Una fine terribile che nessuno dovrebbe subire ma che viene imposta come se lo meritassero.
Quale colpa hanno? Forse solo quella di esistere su un pianeta dove una specie sola tormenta tutte le altre.

Il mio invito, come sempre, è quello di riflettere e di andare oltre ai concetti precostruiti, alla cattiveria resa banale “normalità”. La nostra specie ha bisogno di abbracciare un cambiamento radicale dove il rispetto per la vita ne fa da solido pilastro. Stiamo affrontando un periodo storico che forse non avremmo nemmeno vissuto negli incubi o visto in film distopici, se non avessimo reso un terribile tormento l’esistenza a miliardi di creature.

Nonostante tutto, continuo a confidare nel potere delle persone di cambiare e di migliorare le sorti del nostro genere di appartenenza. Perché gli animali meritano serenità e noi meritiamo una seconda opportunità di buona condotta.


Carmen Luciano


In commercio esistono varianti vegetali anche al pesce, che richiamano determinati sapori ma senza causare sofferenza agli animali, come per esempio questo “caviale” vegan realizzato con alghe marine.




© Carmen Luciano

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