Archivi Blog
[Cultura] Gli Ultimi Giorni di P. B. Shelley Raccontati da E. J. Trelawny
Care lettrici e cari lettori,
torno a parlarvi del poeta Shelley, protagonista del mio libro “Percy Bysshe Shelley Pensatore Antispecista” pubblicato da Carmignani Editrice.
In questo articolo voglio illustrarvi i punti salienti della pubblicazione datata 1858 intitolata “Recollection of the Last Days of Shelley and Byron“ di Edward John Trelawny, carissimo amico di Percy.
Chi ha letto il mio saggio ha avuto modo di approfondire la forte amicizia nata fra Trelawny e Shelley durante la loro permanenza in Italia. Un legame che è andato fin oltre la morte: l’avventuriero inglese, che tanto si affezionò al nostro sensibile difensore degli animali e della dieta vegetale, per non essere mai più separato dall’autore di Queen Mab decise di farsi seppellire accanto a lui nel Cimitero Acattolico di Roma, luogo suggestivo e al contempo incantevole che Shelley riteneva il più bello fra i cimiteri mai visitati.
“These are two friends whose lives were undivided:
So let their memory be, now they have glided
Under the grave: let not their bones be parted,
For their two hearts in life were single-hearted”
Queste sono le commoventi parole incise sul marmo bianco sulla tomba di Trelawny, i cui resti riposano accanto a quella di Shelley nel suddetto cimitero, luogo che conserva la memoria anche del piccolo William, figlio avuto con Mary Wollstonecraft Godwin e deceduto prematuramente all’età di tre anni.

Trelawny, decenni dopo la morte del poeta (avvenuta l’8 luglio 1822 a largo del porto di Livorno), ha deciso di pubblicare le sue memorie sul caro amico e su George Gordon Byron. “Recollection of the Last Days of Shelley and Byron” è un testo che ho trovato prezioso tanto quanto la biografia di Thomas Jefferson Hogg, altro amico dei due poeti, che avrebbe dovuto vantare di quattro volumi anziché dei due effettivi venuti alla luce della stampa.
Come ho riportato nell’incipit del mio libro, di Shelley si è tanto detto e disquisito, non sempre positivamente: Trelawny è uno di quegli autori che ha saputo apprezzare l’amico poeta sia in vita che dopo la morte, permettendoci di far nostri ricordi personali che ci portano a conoscenza dell’animo profondo del suo compianto amico.
Nel suo testo, consultabile in lingua originale cliccando QUI, Trelawny dipinge Shelley come un amico onesto e fedele che avrebbe fatto qualsiasi cosa per le persone a cui voleva bene. Forse, il non avere così tante persone attorno, era per lui una grande fortuna: chiunque avrebbe potuto sfruttare la sua bontà e la sua capacità di sacrificarsi per gli altri. “Shelley loved everything better than himself”, viene riportato a pagina 61: non è un caso se l’empatia del poeta lo portò a non mangiare gli animali.
Se Shelley viene raccontato con affetto e stima, nell’opera non mancano invece critiche verso l’egocentrico Lord Byron, personalità completamente opposta all’autore di Ode to the West Wind. Dopo essermi questionata a lungo sul perché Byron – avvezzo al dare soprannomi alle persone – definisse Shelley “snake” (serpente), Trelawny svela l’arcano: tutto sarebbe collegato alla lettura portata avanti da Shelley del testo Mefistofele di Goethe, più specificatamente del passaggio riguardante Eva e il Serpente. Per Byron, Shelley era persuasivo con le sue idee come il serpente dell’Eden, oltre ad avere un andamento silenzioso ed esser caratterizzato dall’avere una figura longilinea e occhi chiari. Sebbene l’autore del Don Juan avesse addossato questo soprannome a Shelley in senso dispregiativo per i connotati negativi attribuiti cattolicamente e da sempre al suddetto animale, per Trelawny il confusionario portatore di discordia era proprio Byron. Per questo preferiva di gran lunga passare i pomeriggi a Pisa in compagnia di Percy e Mary.
Le pagine 62 e 63 mostrano il forte amore di Shelley per l’acqua in quanto elemento naturale, nonché per il mare. Il poeta si chiedeva come mai non riuscisse a nuotare sebbene sembrasse un da farsi così semplice. Più di una volta infatti aveva rischiato di annegare, rifiutandosi di mettere in pericolo la vita altrui per farsi salvare. “In another minute, I might have been in another planet”: Trelawny riporta le parole espresse dall’amico poco dopo esser stato salvato per miracolo, parole che mostrano una certa sensibilità del poeta riguardo alle altre dimensioni e anche una certa consapevolezza dinnanzi alla morte. Come ho argomentato anche nel mio libro, è probabile che Shelley portasse dentro di sé una sofferenza enorme data anche dal ritrovamento del corpo della prima fidanzata Harriet Westbrook (sposata per non renderla disonorata agli occhi della società del tempo) annegata nel lago Serpentine in Inghilterra. Una tragedia a cui sia durante la sua breve vita, sia ancora oggi, viene attribuita da taluni la completa responsabilità a Shelley, ‘reo’ di aver messo fine alla relazione con la ragazza per divergenze caratteriali e di ideali, in un periodo storico in cui il divorzio non era ammesso.
‘Shelley non si preoccupava della sua vita. I suoi amici si preoccupavano che potesse perderla in qualsiasi momento‘, spiega Trelawny a pagina 74 della sua opera. Sebbene critici e saggisti abbiano visto in tutto ciò una mal celata ricerca della morte, è probabile che Shelley avesse dentro di sé una tale sofferenza da non disdegnarne la sua completa fine.
‘Quando veniva attaccato reagiva sempre con calma, con la finalità di elevare la sua specie’. Credeva nel riformare l’umanità, diffondendo messaggi di consapevolezza, e affrontava le critiche con un animo pacato, anche quando la stampa lo dipingeva come un mostro per le sue idee anticonformiste e liberali (uguaglianza di genere, disconoscimento del potere, difesa della dieta vegetale e libertà religiosa dalle catene del cattolicesimo, per citarne alcune) mentre chi lo conosceva lo vedeva per ciò che era: “un bravo ragazzo, gentile e amorevole”. Completamente opposto invece era Byron, descritto come “cruelly unjust to others” (p. 70). Trelawny dimostra, in queste parole sapientemente usate, grande capacità di analisi della personalità altrui. Solo una persona crudelmente ingiusta avrebbe potuto infierire sulla prematura morte di William e Clara, figlio e figlia di Percy e Mary morti per problemi di salute a rispettivamente tre e un anno di vita. Byron, assieme ad altri, lo fece.
“Recollection of the Last Days of Shelley and Byron” è un testo prezioso anche per la descrizione degli ultimi giorni di vita, nonché dell’ultimo in assoluto, di Shelley. Trelawny racconta nel dettaglio quel tragico lunedì 8 luglio 1822, quando al mattino il poeta, assieme al capitano Edward Williams e al giovane marinaio Charles Vivian lasciarono il porto di Livorno per dirigersi verso il Golfo de La Spezia e arrivare a Villa Magni a San Terenzo dove li aspettavano Mary e Jane. Venti minuti, solo venti minuti durò la tempesta che distrusse la goletta Ariel e strappò la vita a tutti e tre, ritrovati ormai cadaveri una decina di giorni dopo il naufragio su tre punti diversi della costa fra Toscana e Liguria.
È molto probabile che Guido Biagi, bibliotecario e storico che nel 1922 pubblicò “Gli Ultimi Giorni di Percy Bysshe Shelley, con nuovi documenti” abbia letto con grande attenzione il testo di Trelawny, tralasciando però dettagli spiacevoli sul ricordo del ritrovamento dei corpi e sulla cremazione di questi, avvenuta nel mese di agosto del 1822.
“Recollection of the Last Days of Shelley and Byron” è un’opera assolutamente da leggere se ci si vuole sentire ancora di più vicini alla vita del poeta. Sul tema dell’alimentazione vegetale non offre informazioni a differenza della biografia di Thomas Jefferson Hogg, forse per suo disinteresse nei confronti di tale argomento. In compenso, il quadro descrittivo di Shelley e della sua over-sensitiveness è decisamente ricco di dettagli.
Per chi non fosse pratica/o della lingua inglese, vi è adesso la possibilità di leggere il testo in lingua italiana grazie alla primissima traduzione nella nostra lingua pubblicata da Quodlibet: “Gli ultimi giorni di Shelley e Byron”, che verrà presentata il 6 febbraio presso la Keats-Shelley House a Roma.
Carmen Luciano
Dott.ssa in Lingue, Letterature e Filologie Euroamericane
Fonte: Recollections of the last days of Shelley and Byron, Trelawny, Edward John, 1792-1881; Ticknor and Fields. pbl., 1858.
Intolleranti ai Derivati Animali OK, Vegan KO: Analisi Sociale e Riflessioni
Care lettrici e cari lettori,
l’articolo che pubblico oggi è incentrato su una riflessione che merita di essere condivisa con voi, riguardante la differenza nell’atteggiamento sociale destinato a chi non consuma animali o loro derivati per ragioni salutistiche (intolleranza e allergie) o religiose e a chi invece non ne consuma per ragioni morali.

Qualche giorno fa il mio compagno ed io abbiamo fatto un pranzo veloce fuori casa fermandoci a prendere del cibo al reparto panetteria di un punto vendita di una nota catena di supermercati. Consapevoli che in alcuni prodotti da forno vengono utilizzati ingredienti di origine animale, tipo lo strutto (grasso suino, principalmente) ci siamo assicurati che le nostre scelte fossero 100% vegetali con olio d’oliva e senza latte/formaggi/mozzarella.
“Per caso contiene latte o strutto questa focaccina con i pomodori?” ho chiesto alla dipendente che era dietro al bancone in attesa delle nostre scelte.
“No, è all’olio di oliva e non contiene latte” mi ha risposto, mentre ne inseriva nel sacchetto due per pesare il tutto sulla bilancia. Chiuso il sacchetto, ce lo ha consegnato per confezionare della cecina (torta di ceci). Mentre attendevamo quella, ho letto – come faccio sempre – gli ingredienti riportati sulla fascia di carta adesiva per sincerarmi che fosse tutto ok.
Sorpresa!
Nelle focaccine al pomodoro c’era il burro.
Facciamo presente alla dipendente che purtroppo gli alimenti che ci ha confezionato contengono latte, e le diciamo se gentilmente può rimetterli a posto, avendo guanti e possibilità di farlo nella più totale igiene. “Mi avete chiesto se contenevano latte e infatti il latte non c’è, c’è il burro” ci risponde, come se il latte fosse latte e il burro fosse burro.
Le faccio presente che il burro è un derivato del latte, e che non lo consumiamo.
Ci orientiamo verso altro tipo di schiacciate per completare il nostro pranzo da asporto quando la dipendente esordisce con un sorriso rassicurante, dicendo “vi suggerisco di prendere gli alimenti nel reparto senza lattosio se siete intolleranti al latte“. Probabilmente pensava che fossimo due persone che, poverine per loro, per ragioni di salute non potevano consumare derivati animali. La sorpresa per lei è arrivata quando il nostro responso non ha combaciato con le sue aspettative: “la ringraziamo, ma non siamo intolleranti al lattosio, semplicemente non consumiamo derivati animali per ragioni etiche e morali“.
Dopo questa informazione giunta da parte nostra, la dipendente ha cambiato espressione.
Lo sguardo, prima rassicurante e benevolo, si è fatto serio e la maschera di gentilezza ha lasciato il posto a una nuova, più austera: non eravamo persone a cui la natura ha imposto di ‘privarci’ di determinati alimenti, eravamo persone che volontariamente avevano deciso di ‘privarsi’ di quei determinati alimenti, pertanto ‘artefici del nostro stesso male’.
Avete mai notato come cambia l’atteggiamento nei confronti di chi non consuma derivati animali o animali se la ragione di fondo è legata a scelte volontarie e non esterne ed arbitrarie?
Una persona che per motivi religiosi non consuma il corpo di un determinato animale, viene compresa subito e rispettata: è la religione che ha scelto per lei, pertanto merita rispetto. Se il rispetto viene meno, si grida al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza religiosa punita dalla legge.
Se una persona, non per motivi religiosi ma per libera volontà personale, decide di non mangiare NESSUN ANIMALE, quel rispetto viene meno e subentrano astio, incomprensione, ostilità e spesso anche derisione.
Perché accade questo?
Provo a dare una risposta.
Credo che, in una società basata su modus vivendi, scelte e stili di vita dettati dall’alto che cadono addosso per effetto domino ai subalterni (noi, comuni cittadine e cittadini), si tenda a tollerare e ad accettare una determinata caratteristica quando questa è scaturita da decisioni esterne subite passivamente, come può essere la religione. Per abitudine e indottrinamento, alle masse non turbano i tratti salienti se la salienza è determinata da scelte non prese direttamente dall’individuo ma da realtà esterne.
In poche parole, quando si è cittadini e cittadine obbedienti a qualcosa (politica, religione, regole, tradizioni), va bene. Quando invece le decisioni vengono prese per ragioni, motivi, sentimenti interni, scatta l’astio che solo la libertà riesce a generare in coloro che a livello inconscio sanno di non averla.
Nella nostra società, chi decide di voler prendere le distanze dalla ‘normalità’ – una normalità socialmente costruita e naturalizzata come vera – è incompreso, e per taluni merita finanche derisione, ghettizzazione e scherno, per il fatto che ha deciso in autonomia di non sottostare a decisioni che ricadono su tutte le persone. Ne ho prova quotidianamente sulla mia pagina Facebook, dove ogni giorno raccolgo commenti denigratori verso chi, come me, per scelta non finanzia la violenza ai danni degli animali.
Tutto dunque ruota attorno all’obbedienza: chi non obbedisce a regole sociali, alle convenzioni e alla normativa, è un elemento problematico che non si allinea, non si omologa e che quindi deve essere represso.
Perché questa insofferenza verso chi decide, autonomamente, di non sottostare a regole violente, come quella del consumare corpi animali?
La risposta potrebbe essere più semplice ed evidente di quanto non sembri: chi non ha il coraggio di ribellarsi alle ingiustizie, teme chi riesce a farlo. Teme, invidia, odia l’altro, diverso da sé, per le caratteristiche l’altro ha e che non riesce a raggiungere.
Disallinearsi, alienarsi dalla violenza, rifiutarsi di sostenere ingiustizie sono atti di quotidiana rivoluzione possibili solo a persone consapevoli, forti e determinate.
Coraggio, forza, determinazione, disinteresse verso il giudizio esterno e senso di giustizia purtroppo non sono qualità per tutti: ci sono persone che, talmente assuefatte e schiave del sistema, non riescono a spezzare le catene immaginarie che hanno ai polsi.
L’invito per chi ha già compreso e abbracciato uno stile di vita empatico, è quello di continuare senza dubbi né incertezze: l’amore verso ogni forma di vita è l’unica verità che conosciamo.
A chi invece nutre astio verso le persone sopra descritte, il mio invito è quello a deporre le armi sociali, realizzando che ogni regola, ogni realtà deve essere analizzata e valutata, prima di essere accettata ad occhi chiusi. Quando li avrete aperti, noterete una società violenta, che si arroga il diritto di far male ad altre esistenze, e che potrebbe diventare un genere virtuoso e positivo se solo venisse meno alla cieca obbedienza verso regole speciste.
Buona riflessione.
Carmen Luciano













Devi effettuare l'accesso per postare un commento.